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6/26/2024 | Sara Ruggeri
Una ringhiera circolare attorno alla quale si accalca una folla di persone e grida accompagnate da gesti. Sono queste le immagini che caratterizzano i concitati momenti della negoziazione che vedevano come protagonisti gli agenti di cambio. Figure ormai storiche che raccontano di una Borsa molto diversa da quella attuale in cui ogni transazione viene effettuata tramite computer e ogni intermediario immette gli ordini dalla propria sede.
Prima delle imprese di investimento, prima delle società di gestione del risparmio (Sgr), prima delle società di investimento a capitale variabile (Sicav), prima degli intermediari finanziari iscritti nell’elenco previsto dal Testo Unico Bancario, prima delle banche e prima dei consulenti finanziari quando ancora si chiamavano promotori, gli unici interpreti del mercato borsistico italiano erano proprio gli agenti di cambio, dal francese Agents de Change, definizione mutuata dal codice di commercio francese introdotto in Italia nei primi anni dell’Ottocento.
Questi intermediari sono arrivati a consolidare il proprio ruolo con i decreti regi del 1925 relativi al riordino delle borse che stabilivano il loro numero per ciascuna piazza (60 a Milano, 45 a Torino, 45 a Genova, 39 a Roma, 15 a Napoli, 15 a Trieste, 8 a Firenze, 4 a Bologna, 3 a Palermo e Venezia), le mansioni, i diritti e doveri.
L’agente di cambio, agiva secondo quanto previsto dal Codice Civile e dagli usi di Borsa che erano raccolti presso la Camera di Commercio, seguendo un sistema prevalentemente informale, che oggi risulta difficile da immaginare. Il contratto tra intermediario e cliente, ad esempio, non presupponeva la forma scritta e poteva essere concluso per facta concludentia.
Negli Anni 80 si fa strada la necessità di una nuova disciplina dei mercati italiani, con lo scopo di adeguarli a un contesto internazionale sempre più rilevante. La stessa Consob nella relazione annuale del 30 aprile 1987 evidenzia l’esigenza di un intervento per la disciplina delle attività d’intermediazione mobiliare e un rinnovamento delle strutture di mercato dei mercati finanziari che, se non adeguatamente supportato, avrebbe potuto danneggiare gli operatori italiani.
È però la legge 2 gennaio 1991, n. 1, la cosiddetta Legge Sim che segna un vero e proprio punto di rottura. Si assiste all’introduzione della prima disciplina organica delle attività di intermediazione e la negoziazione che fino ad allora era riservata alla figura dell’agente di cambio viene demandata anche alle Società di Intermediazione Mobiliare, che iniziano ad operare con propri dipendenti abilitati.
La prospettiva entro cui si inseriva la nuova normativa era quella di rafforzare la tutela degli investitori e contemporaneamente adeguare la posizione dell’Italia rispetto ai mercati internazionali: una necessità di evolvere dunque che due protagonisti di quegli anni, Renzo Giubergia e Isidoro Albertini hanno saputo cogliere.
Entrambi agenti di cambi, entrambi hanno vissuto le contrattazioni alle grida, in due città di grandi fermento negli Ottanta: Torino e Milano.
La storia vuole che oggi i loro eredi Guido Giubergia (in foto sopra) e Alberto Albertini (in foto sotto) siano rispettivamente presidente e vice presidente di Ersel Banca Privata, gruppo italiano indipendente, focalizzato su private banking e wealth management, capace di offrire una piattaforma di servizi disegnata ad hoc per la propria clientela.
Abbiamo provato a chiedere a loro quanto di quella eredità professionale (ma anche familiare) sia presente ancora oggi nel Dna della boutique e in generale nel private banking italiano.
Agente di cambio, fondamentale per il funzionamento delle Borse; l’unico intermediario ammesso alle negoziazioni fino alla fine degli anni 80. Cosa contraddistingueva una delle professioni da cui deriva l’attuale private banking italiano?
Albertini:
L’agente di cambio era un puro intermediario: ogni ordine di acquisto o di vendita ricevuto dal cliente doveva essere eseguito in Borsa, incrociandosi con un ordine di segno opposto proveniente da un altro agente di cambio.
Questa impostazione portava l’agente di cambio a concentrarsi sulla ricerca delle migliori condizioni per l’esecuzione dell’ordine, avendo come unico interesse quello di soddisfare il meglio possibile il proprio cliente.
La professionalità non si esauriva, tuttavia, nella abilità di esecuzione degli ordini: il fatto di vivere il mercato di Borsa, di conoscerne le tecniche e di saper cogliere gli andamenti era per quelli più preparati una buona base per fornire consulenza indipendente e di qualità agli investitori e alle stesse società quotate.
Giubergia:
Una delle caratteristiche principali, in un mondo non digitalizzato, era che la parola data era un impegno alla pari di quella scritta.
Un mestiere che poteva essere equiparato a quello del notaio per trasparenza e serietà. La differenza l’hanno fatta coloro che hanno saputo crearsi una clientela privata, non rimanendo solo intermediari per le banche e le istituzioni finanziarie, e che hanno poi saputo evolversi quando negli anni ‘90 è cambiata la regolamentazione trasformando radicalmente la professione.
Le contrattazioni avvenivano “alle grida”, ci può raccontare come funzionavano le negoziazioni della borsa di quegli anni prima del mercato telematico?
Albertini:
L’incrocio fra l’ordine di un agente di cambio con quello, di segno opposto, portato da un collega avveniva “alle grida” in un luogo (la “corbeille”) della sala della Borsa dove, disposti in cerchio, si manifestava, appunto “gridando” per farsi sentire da tutti, la disponibilità a vendere o a comprare in base agli ordini ricevuti dai clienti. Uno speaker “chiamava” uno per volta i titoli quotati e per ognuno, dal confronto fra venditori e compratori, scaturiva il prezzo che consentiva il miglior equilibrio fra domanda e offerta.
Il processo richiedeva abilità e precisione, le negoziazioni avvenivano infatti sulla parola e un malinteso poteva trasformarsi in un costoso errore.
Giubergia:
In tempi come quelli, dove tutto era analogico e le comunicazioni avvenivano solo in maniera telefonica e verbale, le variabili potevano essere molteplici.
Nell’arbitraggio, ad esempio, il tempismo poteva essere un fattore determinante e perfino avere un buon rapporto con gli operatori dell’allora Sip poteva avere effetti positivi sulle transazioni.
Guido Giubergia e Alberto Albertini, sono gli eredi degli storici agenti di cambio Renzo Giubergia e Isidoro Albertini. Potremmo dire dunque che il gruppo Ersel, nato dalla fusione tra i due soggetti, sia oggi l’erede principe di quella tradizione? In che modo questa tradizione caratterizza ancora oggi il vostro modello di private banking?
Albertini:
Il nucleo dei servizi e prodotti della attività di private banking differisce, ormai, poco da una istituzione all’altra. Ciò che fa la differenza è il modo di interpretare il mestiere, che dipende dalla configurazione e dalla storia della singola entità.
Nel caso di Ersel la singolarità del modello deriva dalla confluenza di storie molto simili, di esperienze complementari, ma soprattutto da una interpretazione del ruolo che prende il meglio del passato professionale degli agenti di cambio adeguandolo al cambiare dei tempi.
La chiave sta nel saper dare risposte alle richieste del cliente in modo indipendente e soprattutto personale, perché personali sono le esigenze di ogni singolo cliente di private banking. Questa capacità ci ha consentito di coltivare e mantenere negli anni la fiducia dei nostri clienti
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