Tempo di lettura: 6min

Doris (Mediolanum): perchè le reti italiane non vanno all'estero

10/30/2024 | Daniele Barzaghi

L'a.d. di Banca Mediolanum parla del rapporto tra banche italiane e mercati stranieri, della trattativa UniCredit-Commerzbank e del ruolo fondamentale della Spagna nella propria carriera


Perché l’industria italiana del risparmio gestito non riesce a superare i confini nazionali? Ne abbiamo parlato con Massimo Doris (in foto), amministratore delegato di Banca Mediolanum, in occasione della giornata di riflessione organizzata questa settimana a Basiglio alla presenza della stampa finanziaria nazionale e spagnola (qui la cronaca degli interventi).

 

La vostra esperienza in Spagna resta un unicum per dimensione. Banca Generali ha fatto un primo passo in Svizzera, Fineco parla di aperture oltreconfine ma, nonostante la solidità patrimoniale, si è visto ancora poco. Ecco la sola Azimut come voi si è mossa. Come mai?

Il modello italiano delle banche-reti ha dimostrato negli anni grande forza ma ha anche delle debolezze. 

Facciamo un confronto con una banca commerciale. Prendiamo ad esempio UniCredit, di cui in questi mesi si parla molto per la possibile acquisizione della tedesca Commerzbank. Cosa comprerebbe in quel caso? Clienti, impiegati, un po’ di tecnologia e filiali. Sì, distribuirebbero qualche prodotto a marchio loro, ma poca cosa. I margini sono fatti col credito insomma, non con gli investimenti finanziari.

Per una banca-rete il modello operativo è completamente diverso: se noi rileviamo una banca non ci servono le filiali; non costituiscono un valore. Quando abbiamo rilevato la spagnola FiBanc, alla base dell’attuale Banco Mediolanum, l'istituto aveva 15 sportelli – era piccolino – e piano piano li abbiamo chiusi; abbiamo poi trasformato in consulenti finanziari gli impiegati in grado di fare questo passaggio e ne abbiamo reclutati altri da fuori. Ed è stato un processo difficilissimo.

Ai clienti di una banca tradizionale locale acquisita non puoi dire “da oggi non ci sono più le filiali; ci sono i consulenti finanziari”. Tanti clienti storici se ne vanno, non conoscendo questo modello. Noi stessi abbiamo impiegato 10 anni a ingranare in Spagna. Siamo lì ormai da 24 anni e partendo da una base di 2 miliardi di euro con molti sforzi siamo arrivati a 12 miliardi, grazie soprattutto all’accelerazione degli ultimi 4-5 anni.

 

In Germania il percorso fu diverso

In Germania abbiamo seguito un’altra via: siamo partiti da zero, dalla licenza bancaria, assumendoci tutti i costi, dalle assunzioni di impiegati allo sviluppo web; con zero clienti pregressi e, naturalmente, costi da mettere a bilancio fin dal primo giorno.

In Spagna avevamo mandato inizialmente 15 supervisori italiani che, impratichendosi con lo spagnolo in un semestre, avevano cominciato a reclutare e formare consulenti. In Germania era diverso: gli specialisti italiani non imparano il tedesco in sei mesi. Abbiamo mandato tre altoatesini ma con tre professionisti non crei una rete. E non basta inviare un supervisore che semplicemente parli la lingua: devi mandare un ‘bravo supervisore', che parli la lingua. Se no, tanto vale mandare professori di tedesco. Per quello alla fine abbiamo deciso di andare via. 

 

Avete considerato altri Paesi?

In Francia il problema è essenzialmente normativo. Parigi vuole che i consulenti finanziari siano dipendenti. Impossibile per noi.

Dalla Spagna un domani potremmo forse andare in Portogallo, ma investire risorse in un Paese piccolo per aspettare di andare a break even in 10 anni non ha senso industriale. Avevamo pensato semmai di allargare all’America Latina ma l’area non ci dava le garanzie di stabilità che cercavamo. Anche in Messico, che è il Paese americano ispanofono più stabile, i volumi li fai col credito, non con gli investimenti.

Al momento è per noi molto più efficiente impiegare quelle risorse in Spagna dove siamo ancora piccoli e abbiamo grandi spazi di crescita. Per ora, diciamo ‘per ora’, non conviene aprire altri mercati.

Massimo-Doris-2024.jpg

Le società finanziarie e bancarie italiane scontano diffidenza all’estero? Gli italiani vanno bene come designer e cuochi ma per la finanza si preferiscono ad esempio soggetti anglosassoni?

Sì, questo cliché sopravvive ancora oggi. Lo stiamo vedendo proprio nell’esempio di UniCredit e Commerzbank di cui parlavamo poco fa. Se l’acquirente fosse stato BNP, in Germania avrebbero reagito allo stesso modo? Forse in parte sì, perché il sistema bancario è un architrave cruciale nell’economia di un Paese e quindi vederlo passare in mani straniere non piace a nessun Governo.

Detto questo, noi abbiamo qui in Italia Credit Agricole, la stessa BNP e non mi sembra sia successo chissà che cosa. Però siamo forse l'unico Paese che ha aperto così, gli altri sono tutti chiusi in difesa. L’ex governatore di Banca d’Italia Antonio Fazio è stato perfino indagato per aver cercato di aprire il mercato.

Se sei italiano, come dicevi anche tu, va bene finché fai moda o food, ma in ambito bancario sei guardato diversamente. E non solo. In Germania, ad esempio, la tesoreria della nostra banca aveva comprato BTP: ce li hanno fatti vendere; ci hanno detto che dovevamo comprare Bund. Avevano il potere di farlo? No, però lo hanno fatto.

Anche in Spagna all’inizio abbiamo avuto difficoltà enormi; in quel caso però non per essere italiani. Le autorità spagnole erano spaventate più dal modello della banca-rete che dalla nostra nazionalità, come fu evidente quando stavamo comprando FiBanc ed era in gara anche una banca tradizionale come UBS. Ci vedevano come gente che andava per le case a chiedere soldi, temendo chissà che problemi potessimo portare. 

Abbiamo dovuto faticare tantissimo a far capire loro che eravamo persone serie e la nostra rivincita è che ormai da anni siamo considerati tra gli interlocutori migliori di Banco de España. Quasi è stato detto agli altri istituti di fare come noi. 

 

La Spagna è stata un momento fondamentale anche del tuo percorso personale.

Nella mia crescita professionale hanno inciso tre elementi dirimenti: aver lavorato a Londra in UBS, quindi fuori dal gruppo; aver fatto il consulente finanziario in prima persona; e aver fatto l’amministratore delegato proprio della nostra banca spagnola. 

Perché la fase spagnola è stata importantissima? Perché nel lavoro quando sorgono dei problemi ti impegni a trovare le soluzioni, ma se sei in difficoltà ti puoi voltare verso il tuo capo e chiedergli un consiglio, un’indicazione. Quando ti volti alla ricerca del tuo responsabile e non c’è più nessuno e devi darti tu la soluzione, perché sei il primo della catena, le cose cambiamo radicalmente.

Io teoricamente allora avevo sì sopra l’ingegner Lombardi, a.d. di Banca Mediolanum, e mio papà, però se dovevo parlare con Banco de España dovevo andarci io: non potevano andarci loro, che non erano in consiglio di amministrazione in Spagna. E quando sorse un problema molto grosso non dormì per tre notti nell’attesa dell’incontro di chiarimento, un momento di confronto delicato e molto duro. 

L’esito dell’incontro fu positivo e con la banca centrale spagnola si decise insieme di guardare al futuro, in un clima rasserenato: fino a quel momento avevamo un’ispezione all’anno. Quell'episodio nella mia carriera è stato fondamentale. Mi ha dato molta più forza.

Condividi

Seguici sui social

Cerchi qualcosa in particolare?